giovedì, aprile 28, 2005

Raccontino onirico - I parte

Giornata, sul finire, ironico sentimentale. Così, alle prese con voci nuove, ho scritto un raccontino, dal sapore un tantino onirico.
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Pelton estrasse una sigaretta dal pacchetto e l’accese tirando una densa boccata. La strada era deserta. Così, con le mani al volante e lo sguardo inchiodato oltre il parabrezza aveva un po’ di tempo per riflettere a quello che era successo. A quello che doveva fare adesso. Non aveva molte alternative. O raccontava a sua moglie la verità. O raccontava a se stesso una grande grossa bugia. Per sempre.
L’aveva sognata e poi l’aveva incontrata. Una cosa che non succede mai a nessuno, aveva pensato mentre le si era avvicinato per chiederle il nome. Spinto da un vigore adolescenziale, da una forza che penetra l’inconscio. Lei gli aveva risposto Kelly e lui era rimasto colpito da quella voce infiorata dall’esperienza. Poi lei aveva sorriso guardandolo come si guarda il proprio uomo dopo aver fatto l’amore. Erano vicini all’ingresso di un ristorante e lei stava probabilmente aspettando qualcuno. Il mio uomo mi ha dato buca questa sera. Entra con me. Offro io la cena. Una cosa che non succede mai a nessuno, aveva pensato mentre guardava il menu. Si muoveva con un’eleganza che no, non era più eleganza, era fascino, era savoir faire, era passione. Avrebbe voluto avvinghiarla a lui in quell’istante, senza dover scegliere tra l’entrecote con salsa di naigre e il sarago al cartoccio. Ora, dinanzi a lui, quel mezzo busto con gli occhi di lince e i capelli da pavone stava prendendo qualcosa dalla sua borsetta. Mi chiamo Pelton. Ti ho sognata questa notte. Arrivò il cameriere. Prese le ordinazioni e se ne andò. Come ero vestita? Come ora. Però avevi due orecchini blu e una spilla sul petto. Abbiamo cenato insieme? No, eravamo in un bar. Tu abitavi lì vicino e mi hai detto che passavi molte serate lì. Interessante. Ora Kelly si bagnava le labbra con un po’ di rossetto. Mi hai offerto da bere? Sei stata tu ad ordinare due white russian. White russian? Il mio preferito. Poi dove siamo andati? A casa tua, a due isolati dal bar. Kelly mise a posto il fard. Basta, usciamo da qui. Kelly si alzò, sollevò la borsetta e si avviò verso l’uscita. Accompagnami in quel bar. Quando arrivarono, un uomo alto le si avvicinò e la baciò. Lei si ritrasse. I due parlarono per un po’. Pelton non poteva sentire quello che le stesse dicendo ma osservò con attenzione l’uomo. Era il cameriere. Vestiva un giubbino in pelle ma gli si intravedeva il cardigan bordò che portava nel ristorante. Sediamoci. Kelly ordinò due White Russian. Dice che mi ama. Ma io no. Ti disturba? Nel mio sogno non c’era. Tolse la cannuccia e sorseggiò dal bicchiere. Pelton si innamorò in quell’istante. E scappò. Corse fino a che aveva aria nei polmoni. Cazzo, cazzo, cazzo. Sospirava. Trovò una panchina e si sedette. Era buio, La primavera rendeva meno tetra quell’immagine. Sua moglie lo stava aspettando a casa. Magari stava raccontando ai loro figli che papà stava lavorando più del solito perché un giorno potessero studiare nelle migliori università degli Stati Uniti. Magari avevano già apparecchiato la tavola e aspettavano l’uomo di casa per dare inizio alla piccola solita festa famigliare, la stessa, da tredici anni. Non aveva forse bisogno di un po’ di colore quel quadretto? No.
Hai dimenticato le chiavi della macchina. Pelton le si avvicinò lentamente, studiando la sua bellezza. Le luci soffuse dei lampioni e il blu della notte davano a quella sagoma l’alone di una poesia scesa dal cielo. Mi accompagni a casa? Ho freddo. Pelton non disse nulla. Era questa la casa nel tuo sogno? Si. Spogliami. Pelton rimase colpito dai suoi seni, sodi, caprini, molesti. Poi si svegliò.
Svoltò a destra. Parcheggiò nel viale. Spense i fari. Entrò in casa. I ragazzi dormivano. Si avvicinò in camera da letto. Il cuore non gli batteva più. Avvertì all’improvviso una gran fame. Quando aprì la porta vide sua moglie candida che dormiva. Si tolse lentamente la camicia e le scarpe senza far rumore. Si sdraiò e sentì il profumo delle lenzuola di seta. Fresche come una sera d’estate. Le xerodine erano sparse sul pavimento. Il barattolo era vuoto. E Pelton si innamorò per la seconda volta in quella notte.

mercoledì, aprile 27, 2005

Ironia

Mi sento Jim Morrison ma non so cantare, né scrivere poesie. Percorso neurale per eccellenza l’ironia fa dell’uomo un filosofo. E’ il vezzo con cui il nonsenso prende corpo e vaga, sui ritmi dell’intelligenza, nelle nostre menti mentre piano piano, prende corpo e senso. In questo percorso, immaginato e realizzato, l’ironia è il più bel modo di scendere a patti con la realtà. E’ un’esperienza assiomatica. Nasce ovunque, da chiunque, stimolata dalla semplice naturalezza delle cose. Talvolta costruita sottobanco da professionisti, talvolta spontanea come un fiore selvatico, innesca nell’uomo reazioni così simili da continente in continente che vien da pensare che, l’ironia stessa, è l’arte di sbeffeggiare la condizione dell’uomo, l’arte che unisce culture diverse, tradizioni lontane, città e radure. L’ironia, spontanea, è sì un’arte, un ritmato decostruire e ricostruire spazi e luoghi. Può rendere romantico un pilastro, e questo stesso sa, che dopo tutto, tornerà pietra. E’ un vagheggio, una sottile pausa al servizio dell’ingegno. Un attimo che entusiasma. Uno scatto breve e allusivo. Un negroni sbagliato. Un dolce virare verso la felicità. Seduce. Zeppa di abbagli e richiami è la condizione dell’uomo che non si sottovaluta. A volte è un dialogo, una schioppettata, una penna fumante, uno sguardo malconcio. L’ironia è l’insieme di frammenti desueti che sfuggono dal quotidiano, dal pensare con gli occhi aperti. Ha l’onore di un’arte povera. Nessuno è in grado di resisterle. L’ironia è forse niente più che un pensiero, un sogno pensato. E’ n’amica.

Teoria del nonsenso

La verità delle cose si raggiunge solo buffoneggiando. E' un cerchio che si chiude, un percorso ontologico in cui il nonsenso prende corpo e diventa senso. E' questa la teoria che ispira la mia vita.

Non si direbbe se vi raccontassi quello che sto facendo, ma è proprio così, credetemi.

Il nonsenso è la forma prima di espressione artistica, la più pura.